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Nel settore privato oltre 6 milioni di lavoratori attendono il rinnovo, in media per quasi tre anni. Crolla il potere d’acquisto: il carrello della spesa sale del 12,7%, le retribuzioni dell’1,1%
Oltre 6 milioni di lavoratori del settore privato attendono il rinnovo del loro contratto nazionale di lavoro. Sono poco più della metà dei dipendenti italiani e alcuni aspettano anche da anni, visto che il tempo medio di attesa è passato dai 28,7 mesi di settembre 2021 ai 33,9 mesi del settembre scorso: quasi tre anni. Ritardo cronico e purtroppo strutturale del nostro sistema di contrattazione che ora però, in un periodo di forte inflazione, diventa quasi intollerabile. Le retribuzioni viaggiano molto al di sotto della volata dei prezzi e i lavoratori stanno perdendo potere d’acquisto.
La corsa dei prezzi. Il confronto, da questo punto di vista, è disarmante. Se l’inflazione vola a ottobre a livelli mai visti dagli anni ’80, segnando un +11,9% annuo con il carrello della spesa a +12,7%, le retribuzioni contrattuali crescono solo dell’1,1%. Se si prende poi l’indice inflattivo Ipca che si applica ai rinnovi contrattuali, le buste paga sono 6,6 punti sotto. E questa differenza non verrà recuperata a breve. Per due motivi: i contratti rinnovati anche solo un anno fa non tengono conto della super inflazione. E tranne quello dei metalmeccanici – che prevede nel triennio una clausola di salvaguardia con aggiustamenti periodici – gli altri sono già inadeguati. Il secondo motivo è il rinnovo dei contratti scaduti abbinato ad un indice – l’Ipca depurato dalla componente energetica importata – che i sindacati considerano inappropriato per questa fase in cui l’inflazione è indotta proprio dal prezzo dei prodotti energetici per almeno i due terzi. Escludere questa parte significa tagliare dai contratti il recupero di una buona fetta dell’inflazione. L’Ipca a cui di solito si fa riferimento è quella fissata a giugno di ogni anno da Istat: quindi +4,7% per i rinnovi di quest’anno, all’incirca la metà dell’inflazione acquisita per il 2022. Sui singoli tavoli contrattuali, quando la questione viene sollevata, non sempre si trova una soluzione migliorativa. I datori di lavoro non vogliono legarsi a un’inflazione troppo alta, specie se poi questa dovesse sgonfiarsi.
Nell’attesa di trovare un equilibrio sul livello dell’indice, molti contratti sono in stallo. Su tutti quello del commercio e l’altro del turismo. Il primo è scaduto alla fine del 2019 e riguarda 2 milioni e 240 mila addetti. Il secondo è scaduto alla fine del 2018 e coinvolge altri 471 mila lavoratori. Il Cnel conta in tutto 558 contratti scaduti nel suo database (501 su 945 nell’ultimo report della Cisl). E altri 57 in scadenza di qui al 31 dicembre: tra questi c’è l’area meccanica di Confartigianato (505 mila addetti), gli alimentaristi di Cna (109 mila), il legno e arredo (108 mila). Tra quelli scaduti spiccano i vigilanti: in 41 mila aspettano un rinnovo dal 31 gennaio del 2016 e sono pagati poco più di 4 euro all’ora. Il mancato rinnovo dei contratti nazionali è una delle cause del lavoro povero in Italia, delle basse buste paga. Anche perché l’impatto dell’inflazione, secondo Istat, è quattro volte più ampio sui redditi più bassi rispetto a quelli alti: +11,6% contro +7,6%, nel report di settembre.
Nel settore privato oltre 6 milioni di lavoratori attendono il rinnovo, in media per quasi tre anni. Crolla il potere d’acquisto: il carrello della spesa sale del 12,7%, le retribuzioni dell’1,1%
Oltre 6 milioni di lavoratori del settore privato attendono il rinnovo del loro contratto nazionale di lavoro. Sono poco più della metà dei dipendenti italiani e alcuni aspettano anche da anni, visto che il tempo medio di attesa è passato dai 28,7 mesi di settembre 2021 ai 33,9 mesi del settembre scorso: quasi tre anni. Ritardo cronico e purtroppo strutturale del nostro sistema di contrattazione che ora però, in un periodo di forte inflazione, diventa quasi intollerabile. Le retribuzioni viaggiano molto al di sotto della volata dei prezzi e i lavoratori stanno perdendo potere d’acquisto.
La corsa dei prezzi. Il confronto, da questo punto di vista, è disarmante. Se l’inflazione vola a ottobre a livelli mai visti dagli anni ’80, segnando un +11,9% annuo con il carrello della spesa a +12,7%, le retribuzioni contrattuali crescono solo dell’1,1%. Se si prende poi l’indice inflattivo Ipca che si applica ai rinnovi contrattuali, le buste paga sono 6,6 punti sotto. E questa differenza non verrà recuperata a breve. Per due motivi: i contratti rinnovati anche solo un anno fa non tengono conto della super inflazione. E tranne quello dei metalmeccanici – che prevede nel triennio una clausola di salvaguardia con aggiustamenti periodici – gli altri sono già inadeguati. Il secondo motivo è il rinnovo dei contratti scaduti abbinato ad un indice – l’Ipca depurato dalla componente energetica importata – che i sindacati considerano inappropriato per questa fase in cui l’inflazione è indotta proprio dal prezzo dei prodotti energetici per almeno i due terzi. Escludere questa parte significa tagliare dai contratti il recupero di una buona fetta dell’inflazione. L’Ipca a cui di solito si fa riferimento è quella fissata a giugno di ogni anno da Istat: quindi +4,7% per i rinnovi di quest’anno, all’incirca la metà dell’inflazione acquisita per il 2022. Sui singoli tavoli contrattuali, quando la questione viene sollevata, non sempre si trova una soluzione migliorativa. I datori di lavoro non vogliono legarsi a un’inflazione troppo alta, specie se poi questa dovesse sgonfiarsi.
Nell’attesa di trovare un equilibrio sul livello dell’indice, molti contratti sono in stallo. Su tutti quello del commercio e l’altro del turismo. Il primo è scaduto alla fine del 2019 e riguarda 2 milioni e 240 mila addetti. Il secondo è scaduto alla fine del 2018 e coinvolge altri 471 mila lavoratori. Il Cnel conta in tutto 558 contratti scaduti nel suo database (501 su 945 nell’ultimo report della Cisl). E altri 57 in scadenza di qui al 31 dicembre: tra questi c’è l’area meccanica di Confartigianato (505 mila addetti), gli alimentaristi di Cna (109 mila), il legno e arredo (108 mila). Tra quelli scaduti spiccano i vigilanti: in 41 mila aspettano un rinnovo dal 31 gennaio del 2016 e sono pagati poco più di 4 euro all’ora. Il mancato rinnovo dei contratti nazionali è una delle cause del lavoro povero in Italia, delle basse buste paga. Anche perché l’impatto dell’inflazione, secondo Istat, è quattro volte più ampio sui redditi più bassi rispetto a quelli alti: +11,6% contro +7,6%, nel report di settembre.
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