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Riconosciuta l’attività giornalistica subordinata a quattro fotografi del Corriere della Sera
Con un’importante decisione molto argomentata e da leggere con attenzione, che risolve una problematica rimasta fin troppo a lungo insoluta, la Cassazione ha finalmente riconosciuto l’attività giornalistica subordinata a quattro fotografi della redazione romana del Corriere della Sera. La sezione lavoro della Suprema Corte con ordinanza n. 24439 dell’8 agosto 2022 (presidente Umberto Berrino, relatore Francesco Buffa), ha affermato un principio di diritto di notevole civiltà giuridica cui dovranno d’ora in avanti attenersi i giudici italiani: «costituisce lavoro giornalistico subordinato il lavoro svolto da fotografi che, nel realizzare (pur con autonomia tecnica) foto a corredo informativo degli articoli (così da integrare ed arricchire quella del testo scritto), ed inviando il prodotto in redazione, coprono in via pressoché esclusiva specifici settori informativi, assicurando il servizio e tenendosi quotidianamente in contatto con la redazione (dalla quale ricevevano indicazioni su cosa fotografare nonché l’abbinamento con il giornalista per la realizzazione del servizio), integrando la relativa attività un inserimento stabile del lavoratore nell’assetto organizzativo del giornale».

Carlo Parisi, segretario generale della Figec Cisal, Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione, ha commentato positivamente la decisione della Cassazione, attesa da tempo: «E’ di grande rilievo ed è destinata ad essere salutata con favore dalla categoria perché dovrebbe mettere fine agli abusi ingiustamente sofferti a lungo dai fotografi soprattutto nelle redazioni di alcuni quotidiani e periodici».
In accoglimento di un ricorso dell’avvocato Marco Gustavo Petrocelli, legale dell’INPGI 1 (ente confluito per legge nell’INPS il 1° luglio scorso, cioè – per una singolare circostanza – oltre un mese prima del deposito delle 19 pagine della motivazione dell’ordinanza nella cancelleria del “Palazzaccio” di piazza Cavour a Roma, ndr) è stata così annullata la precedente sentenza emessa 6 anni fa dalla Corte d’appello civile di Roma che, pur condannando la società RCS Media Group al pagamento in favore dell’INPGI (ora INPS) di 342 mila 814 euro per contributi previdenziali e relative sanzioni dovuti per tre giornalisti in base ai risultati del Servizio ispettivo dell’ente di via Nizza, aveva, invece, ritenuto non dovuti i contributi per quattro fotografi.
I giudici di appello romani avevano spiegato che la loro decisione si basava su due principi di fondo: il primo, secondo il quale la mancanza di obbligo di presenza in redazione e di una postazione ivi assegnata facevano ritenere, pur in presenza di un impegno continuativo, che non fosse ravvisabile il vincolo di subordinazione; il secondo, secondo il quale l’attività non poteva ritenersi di carattere giornalistico in difetto di prova che essa implicasse scelte di carattere creativo ed intellettuale dei fotografi, i quali non avevano accesso al sistema editoriale, ed essendo le foto riviste dalla redazione per eventuali esigenze di impaginazione.
Ma la Cassazione ha ora ribaltato il verdetto di 2° grado dando pienamente ragione non solo all’INPGI 1 (ora INPS), ma soprattutto ai quattro fotografi che – anche se si dovrà attendere ancora altro tempo per un nuovo e ultimo verdetto della Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che, però, dovrebbe essere ormai solo una pura formalità perché sono stati contestualmente respinti in via definitiva tutti gli 8 motivi del controricorso della società RCS Media Group – potranno ottenere l’accredito di tutti i contributi arretrati dovuti e vedersi finalmente anche riconosciuta dal competente Ordine territoriale la compiuta pratica giornalistica con cui poi accedere all’esame da professionisti.
Questa vicenda, tuttavia, ripropone con evidenza l’inaccettabile lentezza del pianeta giustizia del lavoro soprattutto nella capitale d’Italia. Infatti, come già avvenuto in altri recenti casi, anche in questo si dovranno attendere addirittura più di una quindicina d’anni prima che venga emessa una sentenza passata in giudicato. Ciò appare inaccettabile alle soglie del 2023. E ci si chiede: perché, soprattutto a Roma, le cause di lavoro, comprese quelle di natura previdenziale-pensionistica durano così a lungo? Non si violano, forse, numerose sentenze europee emesse a ripetizione negli ultimi 30 anni dalla CEDU in tema di ragionevole durata del processo che espongono poi l’Italia anche al rischio di essere condannata a risarcire pesanti indennizzi proprio per gli ingiustificabili e gravi ritardi del “sistema giustizia civile”?
Poiché, però, una giustizia a scoppio ritardato si traduce di fatto in una denegata giustizia, la FIGEC segnala questo delicatissimo tema all’attenzione del nuovo Governo e del nuovo CSM, presieduto dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, affinché lo affrontino al più presto e lo risolvano alla radice nel migliore dei modi con equità, saggezza ed equilibrio.
Insomma, una cosa è certa: così non si può più andare avanti e i tempi della giustizia del lavoro vanno drasticamente ridotti, magari inserendo in ruolo un maggior numero di magistrati e di personale di cancelleria dotati di strutture tecniche adeguate, ma garantendo sempre e comunque gli stessi diritti a tutte le parti in causa nel pieno rispetto della Costituzione e delle Convenzioni internazionali.

Riconosciuta l’attività giornalistica subordinata a quattro fotografi del Corriere della Sera
Con un’importante decisione molto argomentata e da leggere con attenzione, che risolve una problematica rimasta fin troppo a lungo insoluta, la Cassazione ha finalmente riconosciuto l’attività giornalistica subordinata a quattro fotografi della redazione romana del Corriere della Sera. La sezione lavoro della Suprema Corte con ordinanza n. 24439 dell’8 agosto 2022 (presidente Umberto Berrino, relatore Francesco Buffa), ha affermato un principio di diritto di notevole civiltà giuridica cui dovranno d’ora in avanti attenersi i giudici italiani: «costituisce lavoro giornalistico subordinato il lavoro svolto da fotografi che, nel realizzare (pur con autonomia tecnica) foto a corredo informativo degli articoli (così da integrare ed arricchire quella del testo scritto), ed inviando il prodotto in redazione, coprono in via pressoché esclusiva specifici settori informativi, assicurando il servizio e tenendosi quotidianamente in contatto con la redazione (dalla quale ricevevano indicazioni su cosa fotografare nonché l’abbinamento con il giornalista per la realizzazione del servizio), integrando la relativa attività un inserimento stabile del lavoratore nell’assetto organizzativo del giornale».

Carlo Parisi, segretario generale della Figec Cisal, Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione, ha commentato positivamente la decisione della Cassazione, attesa da tempo: «E’ di grande rilievo ed è destinata ad essere salutata con favore dalla categoria perché dovrebbe mettere fine agli abusi ingiustamente sofferti a lungo dai fotografi soprattutto nelle redazioni di alcuni quotidiani e periodici».
In accoglimento di un ricorso dell’avvocato Marco Gustavo Petrocelli, legale dell’INPGI 1 (ente confluito per legge nell’INPS il 1° luglio scorso, cioè – per una singolare circostanza – oltre un mese prima del deposito delle 19 pagine della motivazione dell’ordinanza nella cancelleria del “Palazzaccio” di piazza Cavour a Roma, ndr) è stata così annullata la precedente sentenza emessa 6 anni fa dalla Corte d’appello civile di Roma che, pur condannando la società RCS Media Group al pagamento in favore dell’INPGI (ora INPS) di 342 mila 814 euro per contributi previdenziali e relative sanzioni dovuti per tre giornalisti in base ai risultati del Servizio ispettivo dell’ente di via Nizza, aveva, invece, ritenuto non dovuti i contributi per quattro fotografi.
I giudici di appello romani avevano spiegato che la loro decisione si basava su due principi di fondo: il primo, secondo il quale la mancanza di obbligo di presenza in redazione e di una postazione ivi assegnata facevano ritenere, pur in presenza di un impegno continuativo, che non fosse ravvisabile il vincolo di subordinazione; il secondo, secondo il quale l’attività non poteva ritenersi di carattere giornalistico in difetto di prova che essa implicasse scelte di carattere creativo ed intellettuale dei fotografi, i quali non avevano accesso al sistema editoriale, ed essendo le foto riviste dalla redazione per eventuali esigenze di impaginazione.
Ma la Cassazione ha ora ribaltato il verdetto di 2° grado dando pienamente ragione non solo all’INPGI 1 (ora INPS), ma soprattutto ai quattro fotografi che – anche se si dovrà attendere ancora altro tempo per un nuovo e ultimo verdetto della Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che, però, dovrebbe essere ormai solo una pura formalità perché sono stati contestualmente respinti in via definitiva tutti gli 8 motivi del controricorso della società RCS Media Group – potranno ottenere l’accredito di tutti i contributi arretrati dovuti e vedersi finalmente anche riconosciuta dal competente Ordine territoriale la compiuta pratica giornalistica con cui poi accedere all’esame da professionisti.
Questa vicenda, tuttavia, ripropone con evidenza l’inaccettabile lentezza del pianeta giustizia del lavoro soprattutto nella capitale d’Italia. Infatti, come già avvenuto in altri recenti casi, anche in questo si dovranno attendere addirittura più di una quindicina d’anni prima che venga emessa una sentenza passata in giudicato. Ciò appare inaccettabile alle soglie del 2023. E ci si chiede: perché, soprattutto a Roma, le cause di lavoro, comprese quelle di natura previdenziale-pensionistica durano così a lungo? Non si violano, forse, numerose sentenze europee emesse a ripetizione negli ultimi 30 anni dalla CEDU in tema di ragionevole durata del processo che espongono poi l’Italia anche al rischio di essere condannata a risarcire pesanti indennizzi proprio per gli ingiustificabili e gravi ritardi del “sistema giustizia civile”?
Poiché, però, una giustizia a scoppio ritardato si traduce di fatto in una denegata giustizia, la FIGEC segnala questo delicatissimo tema all’attenzione del nuovo Governo e del nuovo CSM, presieduto dal Capo dello Stato, Sergio Mattarella, affinché lo affrontino al più presto e lo risolvano alla radice nel migliore dei modi con equità, saggezza ed equilibrio.
Insomma, una cosa è certa: così non si può più andare avanti e i tempi della giustizia del lavoro vanno drasticamente ridotti, magari inserendo in ruolo un maggior numero di magistrati e di personale di cancelleria dotati di strutture tecniche adeguate, ma garantendo sempre e comunque gli stessi diritti a tutte le parti in causa nel pieno rispetto della Costituzione e delle Convenzioni internazionali.
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